Avversioni alimentari: fra fobie, ignoranza e pregiudizi
Da alcuni anni a questa parte le intolleranze alimentari sono diventate un argomento piuttosto popolare. Secondo la Società Italiana di Pediatria (SIP) “il venti percento della popolazione generale ritiene di essere affetta da un’allergia o da un’intolleranza alimentare”. Ne sanno qualcosa i ristoratori, ma anche gli industriali del settore food che ne hanno fatto un motivo di business.
Il disagio provocato da un’intolleranza in alcuni casi è tale che le persone diventano addirittura fobiche. E così, può capitare che, sulla spinta di una reazione di evitamento e tanta disinformazione, la cattiva gestione di un alimento da parte dell’organismo, tecnicamente definita “reazione avversa”, sia confusa con una vera e propria allergia.
È bene non incorrere in questa confusione. Le allergie sono reazioni del sistema immunitario, possono essere pericolose e portare, a seconda del grado di sensibilità individuale, a una vero e proprio “shock anafilattico”.
Nel caso delle intolleranze, tuttavia non sarebbe neppure corretto parlare di reazione avversa, ma, piuttosto, di una cattiva gestione del “rapporto” con l’alimento. Secondo la SIP, solo il 2% della popolazione italiana soffre di una vera “reazione avversa” al cibo (allergia o intolleranza). L’intolleranza, oltre ad essere “dose dipendente”, provoca sintomi a volte difficili da distinguere dagli esiti di una qualunque disreattività per lo più a carico del tratto gastrointestinale. Insomma, la materia è più complessa di quanto possa sembrare e questo, in parte, giustifica lo scarso livello di conoscenza e la conseguente confusione che comunemente si riscontrano fra le persone.
La kinesiologia applicata può allora venire in aiuto facendo emergere condizioni sublatenti, forme disreattive non patologiche riferibili al cibo che possono manifestarsi anche solo come astenia, sonnolenza e perdita di energia.
L’approccio kinesiologico più comunemente impiegato in questo tipo d’indagini è quello del muscolo indicatore forte (MIF). Per “indicatore forte” s’intende un muscolo normotonico, ovverosia capace di reclutare fibre muscolari una volta sottoposto a sollecitazione da parte dell’operatore.
Alla persona viene chiesto di effettuare uno movimento secondo le istruzioni del kinesiologo che a sua volta, in una specifica fase del test esercita una forza in opposizione. Il muscolo è considerato forte se è in grado di rinforzare ulteriormente, anziché cedere sotto la spinta esercitata dall’operatore. Completata questa fase di verifica del muscolo, magari nel corso di uno screening muscolare ad ampio spettro, il kinesiologo ne sceglie almeno uno sul quale eseguire i test alimentari.
L’alimento, in genere sotto forma di fiala test, è usato come “provocatore”, ovverosia come agente disturbante la normale fisiologia della trasmissione dell’impulso elettrico che attiva la contrazione muscolare. Il MIF testato con l’alimento può conservare la sua normale capacità di reclutamento delle fibre muscolari, oppure perderla, indebolendosi. In questo secondo caso è possibile ipotizzare che vi sia un’interazione negativa dell’alimento con l’organismo della persona. Se quell’alimento si fosse trovato nel suo piatto avrebbe verosimilmente creato un disturbo (anche se non percepito) prima a livello digestivo, successivamente anche a livello neurologico, e la comparsa di “interferenze” a vari livelli, compreso quello muscolare. Il kinesiologo naturopata, in questi casi, può svolgere un’importante funzione di orientamento, favorendo la presa di coscienza del problema da parte della persona.
Una volta concluso il percorso d’indagine kinesiologica, si otterrà un quadro più chiaro di ogni problematica legata alle proprie abitudini alimentari e sarà possibile affrontare con serenità le eventuali intolleranze con l'aiuto di uno specialista.